Paul Polman, CEO Unilever in Cile, ha recentemente dichiarato in un convegno londinese sul tema “Green Business”, che l’attuale crisi dei consumi ha “origini tanto finanziarie quanto etiche, e che ciò apre grandi potenzialità per i brand che sappiano ispirare fiducia ai consumatori”.
Di sicuro siamo di fronte a nuovi comportamenti di consumo che pongono l’accento sulla valutazione di convenienza anche per quei gruppi sociali meno toccati dalla flessione dei budget disponibili per lo shopping. La parola “shopping” oggi suona meno festosa e superficiale, più ponderata e oculata. Meno d’impulso e più di strategia.
Anche i beni di lusso –che sembrano dai dati di vendite già disponibili aver meno risentito del previsto durante lo shopping natalizio – si vestono di maggiore sobrietà e, perdendo in ostentazione, acquistano in eccezionalità. Nulla lascia presagire, almeno a breve, un ritorno ai livelli di consumo pre-crisi né da un punto di vista quantitativo, né da quello qualitativo. E non basterà per certo l’impegno “verde” a convincere i consumatori ad aprire il portafoglio.
L’attenzione alla sostenibilità ambientale e una maggiore coscienza etica – che vuol dire maggiore consapevolezza dell’impatto della propria azione sulla vivibilità generale del pianeta – saranno probabilmente un must nel brevissimo futuro, ma non certo risolleveranno da sole i consumi. Lo stesso ragionamento vale nel settore del commercio.
Il recente decreto “Crescitalia” ha di fatto liberalizzato gli orari di apertura degli esercizi commerciali, e c’è chi già spinge su un’ulteriore liberalizzazione delle modalità di effettuazione dei saldi stagionali. Il dibattito è in questo momento assai acceso e si tende a leggerlo come contrapposizione tra gli interessi della grande distribuzione e quelli del piccolo dettaglio: la prima in grado di assorbire i costi e le complessità organizzative di un ampliamento degli orari di apertura, i secondi –spesso a gestione familiare– in difficoltà a competere.
La motivazione diffusa data a tale liberalizzazione è quella di migliorare il servizio (leggasi favorire le possibilità di acquisto) ad un consumatore che vive la propria quotidianità con orari flessibili e sempre più difficilmente standardizzabili nel tempo lavorativo, come in quello personale o di shopping. Ampliare gli orari di apertura per far trovare sempre una risposta pronta alle esigenze delle persone, e in questo modo aumentare le possibilità di vendita.
Ma questa equazione è davvero consistente? È sufficiente far trovare i negozi aperti per incrementare il numero dei clienti? E per far aumentare gli scontrini? Il buon senso direbbe di no.
L’evidenza è che il numero dei clienti e degli scontrini non è frenato dal fatto che i luoghi di acquisto sono limitati (nello spazio e nel tempo) ma da una volontà (o la possibilità) di spesa inibita da un minore impulso allo shopping. Studi sui comportamenti di consumo dimostrano che ad orari differenti, all’interno dei punti di vendita, corrispondono profili di consumatori diversi e conseguentemente diversi comportamenti di shopping per tempo speso all’interno del negozio, composizione dei carrelli, importo speso. Il cliente della mattina è diverso di quello delle ore 20, quello infrasettimanale è differente da quello del week end o dei saldi.
Esistono visite in negozio finalizzate all’acquisto e visite motivate dalla volontà di passare piacevolmente un momento di pausa (il “farsi un giro”) oppure solamente informarsi sulle novità di prodotto. E troppo spesso ormai – il fenomeno inizia a essere da incubo – si assiste a punti di vendita totalmente vuoti di clienti anche in orari un tempo definiti “vitali”. Pensiamo agli ipermercati ad esempio, e a quanto spesso bastano le dita delle mani di poche persone per contare i clienti presenti in 5.000-8.000 mq….
L’ampliamento degli orari di apertura dei negozi difficilmente porterà ad un aumento delle vendite. Il vantaggio reale non è in termini di fatturato ma di modernizzazione del commercio.
Ampliare le ore di apertura oltre quelle “convenzionali” vuol dire riconoscere che i tempi della quotidianità delle persone sono cambiati, che si lavora ben oltre le 17 di sera, che si fa spesso shopping in pausa pranzo, che una società sempre più improntata al terziario produce lavoratori-consumatori caratterizzati da fasce orarie differenti e che tutto ciò non è più una eccezione ma la regola.
Non si tratta di aumentare il numero di clienti, ma di offrire un servizio migliore seguendo le loro esigenze di acquisto in termini temporali e spaziali. Seguirli anche nello spazio, si diceva, vuol dire –da un punto di vista del commercio– proporre dei format di vendita in grado di offrire assortimenti sensati e risolutivi rispetto ad esigenze specifiche. Le liberalizzazioni “merceologiche” di qualche anno fa hanno prodotto –tra i molti benefici– anche derive inquietanti. È ben chiaro il valore (in termini di servizio) che deriva dall’ampliamento dell’offerta delle edicole, ad esempio, oppure (per citare qualche caso tra i tanti) della possibilità di usufruire di servizi di tintoria rapida nel proprio supermercato di fiducia, oppure del poter fare qualche piccola provvista last minute per la cena della sera in palestra o nelle vending machine. Ma eccessi di creatività non giustificati da un incremento di servizio appaiono come vere e proprie insensatezze.
Il negozio di abbigliamento fashion uomo, ad esempio, che per metà è gastronomia e vende salumi al trancio e formaggi (in una via centrale a Milano) ecco, proprio non ce lo vedo, se non da un punto di vista della capacità di sorprendere gli addetti ai lavori e quindi di far parlare (male) di sé (questo gli riesce benissimo invece, e infatti è la seconda volta che lo cito come esempio in un articolo). Come per il tempo, così anche per lo spazio, si tratta di una questione di buonsenso e, nel retailing, il buonsenso è relativo al tipo di posizionamento che il punto di vendita (o l’insegna) vuole tenere. L’ampliamento degli orari di apertura, oppure quello del mix merceologico, è un’opportunità, non una moda che deve essere forzatamente seguita.
Prima di decidere un qualsiasi cambiamento occorre porsi la domanda se l’eventuale ampliamento è in sintonia con le esigenze della propria clientela, oppure se può aiutare il dialogo con un’eventuale clientela target. Non tutti i piccoli commercianti hanno oggi o avranno mai in futuro benefici sufficienti (da un punto di vista del fatturato e del buonsenso) per aumentare le ore di apertura. E probabilmente anche la grande distribuzione non avrà vantaggi assicurati. Il primo esperimento di shopping notturno esperimentato a Milano l’8 di gennaio (negozi aperti fino alle 22) non ha proprio portato i risultati voluti….il futuro del retailing a breve non dipende dalla capacità di incrementare i volumi dei consumi, ma di incidere sulla qualità e sulla soddisfazione degli stessi.
Ragionare unicamente su una prospettiva “dimensionale” non permette di afferrare le possibilità di innovazione del commercio, che precludono ad un futuro nuovo rapporto con i consumatori e con la società più in generale.
Tante volte si è parlato di “nicchie” nel commercio, intese come individuazione di posizioni di privilegio per lo più lette in termini di fasce alte di clientela di riferimento. Oggi occorre considerare la necessità di creare un nuovo ecosistema commerciale.
I retailer dovranno con maggiore attenzione e lucidità trovare la propria ragione di essere in un mondo dove i consumi sono sempre più spesso scelta oculata e individuale e sempre meno imposizione sociale. Dovranno farsi comprare, insomma, e non basterà più semplicemente “esserci”sul mercato.
Per tornare al pensiero del CEO di Unilever, come i brand anche i retailer dovranno avere in futuro un motivo di raccontare e di raccontarsi ma questo racconto dovrà necessariamente essere specchio della propria individuale personalità e ragione d’essere.
a cura di Re.d, divisione di Marketing &Trade